“La cosa più misericordiosa al mondo, credo, è l’incapacità della mente umana di mettere in relazione tutti i suoi contenuti. Viviamo su una placida isola di ignoranza in mezzo a mari neri di infinito, e non era previsto che navigassimo lontano.”
— H.P. Lovecraft, The Call of Cthulhu (adattato)
Mi chiedo: quando la distanza smette di esistere, dove sono?
Sono le 3:47 del mattino e il mio laboratorio al CERN brilla della luce azzurra degli schermi. I dati non hanno senso. Li ricontrollo per la diciassettesima volta. La correlazione di von Neumann misura 0,847 — impossibile. Dovrebbe essere 1,0 per particelle massimamente entangled. Forse un errore di calibrazione. Forse il rivelatore è sporco. Forse il vuoto quantistico stesso sta tradendo proprietà che non dovrebbe avere.
Forse il tessuto dello spazio sta morendo.
No. Razionalizziamo. Sono Chiara Bellini, dottorato in fisica teorica, dieci anni di ricerca sull’entanglement quantistico e la corrispondenza AdS/CFT. Conosco i miei strumenti. Conosco i miei dati. E questi dati mi stanno dicendo che qualcosa di fondamentale è sbagliato.
Ripenso all’articolo che ho pubblicato l’anno scorso: “Spaziotempo Emergente dalle Reti Tensoriali: Un Approccio Sperimentale”. L’idea era elegante nella sua radicalità: lo spazio non è il palco su cui recita la materia, ma il risultato — l’emergenza — di correlazioni quantistiche tra qubit fondamentali. Come Van Raamsdonk aveva dimostrato teoricamente nel 2010, se riduci l’entanglement, lo spazio si strappa. Se l’entanglement svanisce, lo spazio smette di esistere.
Era solo teoria. Bellissima matematica astratta. Non sarebbe dovuto essere… reale.
I numeri non mentono. Eseguo di nuovo il protocollo di Bell. Le violazioni sono deboli. Troppo deboli. È come se i fotoni entangled che sto producendo ricordassero appena di essere correlati, come se il filo invisibile che li unisce si stesse sfibranciando.
Il protocollo di Bell
Il protocollo di Bell (o test di Bell) si riferisce agli esperimenti che verificano le disuguaglianze di Bell, formulate dal fisico John Stewart Bell nel 1964.
Cosa sono le disuguaglianze di Bell?Le disuguaglianze di Bell sono limiti matematici che qualsiasi teoria fisica basata su variabili nascoste locali (cioè una descrizione “realistica” e “locale” della realtà) deve rispettare. In parole semplici:
- Realismo locale: l’idea che le particelle abbiano proprietà definite anche quando non vengono misurate, e che le influenze non possano viaggiare più veloce della luce.
Il protocollo sperimentale
Un tipico test di Bell funziona così:
- Si creano due particelle entangled (ad esempio, due fotoni con polarizzazioni correlate)
- Si separano le particelle a grande distanza
- Si misurano le loro proprietà (es. polarizzazione) lungo direzioni scelte casualmente
- Si confrontano i risultati per calcolare le correlazioni
Cosa rivelano i risultati?
Gli esperimenti hanno dimostrato che:
- La meccanica quantistica viola le disuguaglianze di Bell
- Le correlazioni quantistiche sono più forti di quanto qualsiasi teoria realistica locale permetterebbe
- L’entanglement quantistico è reale e non può essere spiegato con variabili nascoste locali
Nel racconto, Chiara esegue “il protocollo di Bell” per verificare la forza delle correlazioni quantistiche tra coppie di particelle EPR (Einstein-Podolsky-Rosen). Quando scopre che “le violazioni sono deboli”, significa che le correlazioni quantistiche si stanno indebolendo – un segnale che l’entanglement stesso sta decadendo, portando alla dissoluzione dello spaziotempo.
Questo è un concetto fondamentale perché, secondo la teoria moderna (Van Raamsdonk, Maldacena), lo spazio stesso emerge dall’entanglement quantistico!
Calcolo la divergenza: ΔS ≈ 0,153. L’entropia di entanglement sta crescendo là dove dovrebbe rimanere costante. Le correlazioni quantistiche — i fili che tessono il tessuto dello spazio — si stanno deteriorando.
La temperatura nella stanza è di 293 K. La pressione è standard. Tutti i parametri ambientali sono nominali. Non c’è interferenza esterna. Il decadimento sta avvenendo spontaneamente.
Scrivo nel mio quaderno di laboratorio: “2:47 AM, 7 ottobre 2025. Prima evidenza sperimentale di decoerenza spontanea dell’entanglement in condizioni di vuoto quantistico isolato. Riprodotto su 847 coppie EPR indipendenti. Significatività statistica: 8,2σ. Possibile interpretazione: degrado della struttura olografica dello spaziotempo a livello di scala di Planck \(l_P ≈ 1,6 × 10^{-35} m\).”
Le mie mani tremano mentre scrivo. Non dovrei tremare. Sono una scienziata. Ma sotto queste parole cliniche c’è una verità che mi gela: se l’entanglement sta decadendo spontaneamente, e se lo spazio è davvero emergente dall’entanglement come crediamo, allora lo spazio stesso sta…
No. Troppo presto per conclusioni. Servono più dati. Sempre più dati.
Sono le 11:23. Non ho dormito. Ho replicato l’esperimento con sette configurazioni diverse. Il risultato è identico. Il coefficiente di correlazione continua a scendere: 0,843… 0,841… 0,839…
Chiamo Marco a Tokyo. È uno dei tre fisici al mondo che capirebbero. Tre squilli, poi la sua voce assonnata: “Bellini? Sono le 7 di sera qui, stavo—”
“L’entanglement sta decadendo,” dico senza preamboli. “Spontaneamente. Coppie EPR massimamente correlate mostrano decoerenza senza interazione con l’ambiente.”
Silenzio. Poi: “Impossibile. Il no-hiding ci dice che l’informazione quantistica non può semplicemente sparire.”
“Lo so. Ma sta succedendo. I dati sono solidi.”
“Hai controllato—”
“Tutto. Diciassette volte.”
Un altro silenzio, più lungo. “Mandameli. Li analizzo.”
Riattacco e mi accorgo che la mano che teneva il telefono è più lontana di quanto pensassi. È un’illusione ottica, ovviamente. La stanchezza. Ma per un momento — un momento infinitesimale — la distanza tra me e il telefono sembrava… ambigua. Come se il mio cervello non fosse sicuro di quanto spazio ci fosse in mezzo.
Rido. Nervosa. È ridicolo. Sono esausta.
Torno ai dati. La correlazione è ora 0,837.
Terzo giorno. O forse quarto. Ho perso il conto delle ore. Marco ha confermato. I suoi rivelatori in Giappone mostrano lo stesso trend. Anche il team di Monaco. Non è un artefatto locale. È globale.
La correlazione è 0,829.
Qualcosa di fondamentale sta cedendo. Non la materia. Non l’energia. Il substrato stesso su cui si appoggiano.
Rileggo Van Raamsdonk. Il suo paper del 2010, “Building up spacetime with quantum entanglement,” è ormai logorato dalle mie annotazioni. L’esperimento mentale è chiaro: in una corrispondenza AdS/CFT, se riduci gradualmente l’entanglement nella teoria di confine, lo spazio bulk inizia a strapparsi. Prima restano connesse le regioni vicine, poi anche quelle si separano. Con zero entanglement, lo spazio collassa in frammenti disconnessi.
Ma quello era un modello giocattolo. Un universo semplificato, matematicamente trattabile. Il nostro universo è un tessuto di \(10^{80}\) particelle, ciascuna potenzialmente entangled con innumerevoli altre attraverso un intricato pattern di correlazioni che si estende per 13,8 miliardi di anni-luce.
Se quel tessuto si sta sfaldando…
Provo a calcolare. Se il decadimento continua al ritmo attuale — circa 0,002 al giorno — quanto tempo prima che la correlazione raggiunga lo zero?
τ ≈ 0,829 / 0,002 ≈ 414 giorni.
Poco più di un anno prima che lo spazio, matematicamente parlando, smetta di essere continuo.
Ma cosa significa in pratica? Non abbiamo mai testato la teoria in condizioni del genere. Cosa succede quando la lunghezza di correlazione quantistica scende sotto la scala umana? Sotto la scala molecolare? Atomica?
Il telefono squilla. È James da Oxford. “Chiara, i miei studenti stanno riscontrando anomalie negli esperimenti con fasci atomici. Schemi di interferenza che non quadrano. Come se la lunghezza d’onda di de Broglie fosse instabile.”
“Che tipo di instabilità?”
“Fluttuazioni casuali del 2-3%. In condizioni perfettamente controllate.”
Sento il mio stomaco stringersi. Gli elettroni negli atomi sono entangled tra loro attraverso la funzione d’onda collettiva. Se quella correlazione vacilla, la materia stessa diventa… sfocata.
“James, hai misurato la fase relativa tra i bracci dell’interferometro?”
“Sì, e qui viene il bello. La fase si comporta come se la distanza fisica tra i bracci stesse fluttuando. Ma i bracci sono rigidi, montati su granito. Non si muovono.”
Non si muovono. Ma la distanza fluttua.
Perché la distanza non è una proprietà dello spazio. È una proprietà dell’entanglement.
Decimo giorno. La correlazione è 0,811.
Ho smesso di dormire regolarmente. Quando chiudo gli occhi vedo equazioni. Vedo la metrica dello spaziotempo che si degrada:
\[ ds^{2} = g_{\mu \nu}\, dx^{\mu}\, dx^{\nu} \;\to\; ??? \]
Dettagli…
è la formula fondamentale della Relatività Generale.
Cosa significa?
- \(ds^{2}\) → è l’intervallo (line element) tra due eventi infinitamente vicini nello spaziotempo. Può essere:
- positivo (intervallo spaziale),
- negativo (intervallo temporale),
- nullo (luce).
- \(g_{\mu \nu}\) → è la metrica dello spaziotempo, cioè un tensore che descrive la geometria e la curvatura (determina “quanto è lungo” un certo spostamento in funzione della gravità o della struttura dello spaziotempo).
- \(dx^{\nu}\) → sono gli spostamenti infinitesimi nelle coordinate dello spaziotempo (tempo e spazio: dx0=dt,dx1=dx,dx2=dy,dx3=dzdx^0 = dt, dx^1 = dx, dx^2 = dy, dx^3 = dzdx0=dt,dx1=dx,dx2=dy,dx3=dz).
Il prodotto \(g_{\mu \nu}\, dx^{\mu}\, dx^{\nu}\) è una somma implicita (Einstein summation convention) su tutte le coppie di coordinate.
L’idea del “→ ???”
Il simbolo → indica che questa definizione generale si riduce a casi particolari, a seconda della metrica scelta.
Esempi:
- Spaziotempo piatto (Minkowski):
Con la metrica \(\eta_{\mu\nu} = \mathrm{diag}(-1, +1, +1, +1)\)
\[
ds^{2} \;\to\; -dt^{2} + dx^{2} + dy^{2} + dz^{2}
\]- Spaziotempo curvo (es. Schwarzschild):
Attorno a una massa M:
\[
ds^{2} \;\to\; -\left(1 – \frac{2GM}{r}\right) dt^{2}
\left(1 – \frac{2GM}{r}\right)^{-1} dr^{2}
r^{2} d\theta^{2}
r^{2} \sin^{2}\theta \, d\phi^{2}
\]- Spaziotempo cosmologico (FRW):
In cosmologia, con il fattore di scala a(t):
\[
ds^{2} \;\to\; -dt^{2} + a^{2}(t)\left[\frac{dr^{2}}{1 – k r^{2}} + r^{2} d\Omega^{2}\right]
\]
Cosa succede quando i coefficienti metrici \(g_{\mu \nu}\) diventano indefiniti? Quando la nozione stessa di “distanza” perde significato?
Marco ha sviluppato un modello. Se interpretiamo il nostro universo come la proiezione olografica di una teoria quantistica di confine — come suggerisce la corrispondenza AdS/CFT — allora il decadimento dell’entanglement nel “confine” si manifesta come instabilità geometrica nel “bulk”. Lo spazio tridimensionale che percepiamo è sostanzialmente un ologramma generato da correlazioni bidimensionali.
Bulk
In fisica teorica, soprattutto nel contesto della corrispondenza AdS/CFT (o, più in generale, delle teorie olografiche):
- Confine (boundary) → è lo spazio (a una dimensione in meno) dove vive la teoria di campo conforme (CFT).
- Bulk → è lo spazio “interno” di dimensione superiore, tipicamente lo spaziotempo curvo (es. anti-de Sitter) che emerge o è “dualmente descritto” dal confine.
Quindi nella frase:
- “decadimento dell’entanglement nel confine” → significa che nella teoria sul bordo (CFT) le correlazioni quantistiche tra sottosistemi si degradano.
- “instabilità geometrica nel bulk” → vuol dire che questa perdita di entanglement si riflette come una deformazione o instabilità nella geometria dello spaziotempo nel volume interno (il bulk).
E quell’ologramma sta perdendo risoluzione.
Ho iniziato a notare cose. Piccole cose. La penna sulla mia scrivania è dove l’ho lasciata, ne sono certa, ma sembra più vicina di prima. Il muro della mia stanza sembra… impreciso. Come se i suoi confini non fossero netti ma sfumati.
Mi dico che è suggestione. Che sto proiettando la mia comprensione teorica sulla percezione. Il cervello umano è un motore di predizione bayesiano. Vede pattern anche nel rumore.
Ma poi afferro la tazza di caffè e per un istante — un istante brevissimo — la mia mano e la tazza sembrano occupare… lo stesso spazio? No. Non proprio. Qualcosa di più sottile. Come se la distanza tra loro fosse un parametro variabile piuttosto che una costante.
La tazza è ora nella mia mano. Tutto normale. Era solo la stanchezza.
La correlazione è 0,809.
Giorno quindici. Forse.
Ho perso il senso del tempo. Non nel senso metaforico. Letteralmente. Il mio orologio dice 4:13 PM. Ma non ricordo cosa sia successo tra le 3:47 e ora. Non un vuoto di memoria. È come se quei ventisei minuti fossero… compressi. O allungati. O entrambi simultaneamente.
La correlazione è 0,794.
James mi ha chiamato di nuovo. Dice che i suoi esperimenti stanno dando risultati “non-locali”. Due atomi separati da un metro si comportano come se fossero nello stesso punto. Ma solo per femtosecondi. Poi tornano separati.
“È come se lo spazio glitchasse,” ha detto.
Glitch. Termine informatico. Appropriato. Se l’universo è una computazione — l’elaborazione di informazione quantistica attraverso una rete tensoriale — allora sì, stiamo vedendo glitch. Corruzione dei dati.
La congettura ER=EPR di Maldacena e Susskind (2013) dice che ogni coppia di particelle entangled è connessa da un micro-wormhole. Non attraversabile, non rilevabile, ma geometricamente reale. Se questo è vero, allora ogni degradazione dell’entanglement corrisponde alla chiusura di questi ponti microscopici.
E il tessuto dello spazio è fatto di miliardi di miliardi di questi ponti.
Stanno tutti chiudendosi.
Ho provato a camminare dal laboratorio all’ufficio. Dieci metri. Li ho contati mille volte. Ma stavolta… non sono sicura di quanto tempo ci abbia messo. I miei passi si sentivano normali. Il corridoio sembrava identico. Ma quando sono arrivata e ho guardato l’orologio, erano passati tre minuti. O tre secondi. Non ricordo.
La porta del mio ufficio è dove dovrebbe essere. Ma anche qui, quella sensazione di imprecisione. Come se la distanza tra me e la porta fosse un numero con troppe cifre decimali. Un numero irrazionale che il mio cervello non riesce a arrotondare.
Apro il computer. Le email sono normali. Ma le lettere sullo schermo sembrano… vibrare? No, non vibrare. Qualcosa di diverso. Come se occupassero più spazio di quanto dovrebbero. O meno. O entrambi.
Mi sfrego gli occhi. Sto impazzendo. Sto proiettando la teoria sulla realtà. Devo dormire.
Ma se dormo, perdo tempo prezioso. E il tempo…
Il tempo è solo un’altra dimensione dello spazio. Se lo spazio sta collassando, allora…
Giorno sedici, oppure venti, oppure tutti i giorni simultaneamente.
Quando guardo l’orologio vedo il tempo come un oggetto fisico che posso quasi toccare. Le lancette sono ferme sul 2:34 AM, ma questa stasi è ingannevole perché simultaneamente percepisco il fluire di eventi: respiri che si accumulano, pensieri che si stratificano, battiti cardiaci che scandiscono un ritmo che il tempo esterno non registra. La correlazione di von Neumann segna 0.781, e questo numero è diventato una litania, un mantra che ripeto mentre cerco di aggrapparmi alla consistenza matematica in un mondo dove la geometria stessa sta diventando ambigua.
L’entanglement decade, ma ciò che davvero accade è più sottile e terribile: lo spazio non scompare, semplicemente smette di obbedire alle regole che ho sempre creduto immutabili. La distanza tra due punti non è più un numero definito ma una probabilità che fluttua, un campo scalare che ha dimenticato come essere costante.
Marco mi chiama da Tokyo e la sua voce porta notizie che confermano le mie peggiori intuizioni: gli edifici della città sembrano comprimersi verticalmente, come se la dimensione dell’altezza stesse perdendo la sua indipendenza dalle altre due. Il suo appartamento al quattordicesimo piano ora affaccia su una strada che sembra troppo vicina, la prospettiva è sbagliata, l’architettura urbana sta collassando in una geometria non-euclidea che Escher avrebbe potuto dipingere ma che nessuno dovrebbe abitare.
James ha smesso di rispondere. Ho provato a chiamarlo diciassette volte, oppure settantuno, o forse infinite volte perché il conteggio stesso richiede una sequenza temporale che non sono più sicura di percepire correttamente. Ogni tentativo di comunicazione si perde in un interstizio tra il qui e il là, tra il prima e il dopo, come se le linee telefoniche stesse fossero fatte di distanza e quella distanza stesse evaporando.
La notte scorsa ho guardato il cielo e le stelle erano tutte presenti, esattamente dove dovrebbero essere secondo le mappe celesti, ma il cielo stesso aveva perso profondità. Non era più una sfera infinita punteggiata di luce distante anni-luce, ma qualcosa di più simile a un soffitto dipinto, una superficie piatta decorata con punti luminosi che pendevano a pochi metri sopra di me. La dimensione radiale dello spazio, quella che si estende verso l’esterno dal mio corpo verso l’infinito cosmico, stava collassando su se stessa.
Ho preso il metro a nastro e ho misurato la mia stanza: quattro metri per sei, come è sempre stato, come dev’essere perché le pareti non si sono mosse. Ma quando ho finito di misurare e ho guardato la stanza con i miei occhi invece che con lo strumento, la geometria non corrispondeva più. La stanza sembrava simultaneamente più piccola e più grande, come se la mia percezione e la misurazione fisica abitassero universi diversi e incompatibili. La correlazione è scesa a 0.768, e realizzo che questo numero non misura solo l’entanglement quantistico ma la coerenza stessa della realtà.
Van Raamsdonk aveva ragione in modi che nemmeno lui poteva immaginare: lo spazio è davvero emergente dalle correlazioni quantistiche, un tessuto intrecciato da miliardi di miliardi di fili invisibili che connettono ogni particella del cosmo. Ma ora quei fili si stanno spezzando uno dopo l’altro, e ciò che rimane non è il vuoto — il vuoto ha ancora una geometria, una metrica, una struttura. Ciò che rimane è qualcosa di più fondamentalmente alieno: punti isolati di esistenza che galleggiano in un non-spazio dove la domanda stessa “quanto dista X da Y?” non ha più significato perché il concetto di distanza ha perso la sua definizione ontologica.
Ho camminato dal laboratorio a casa, oppure ho provato a farlo, o forse l’ho fatto ma attraverso un percorso che la geometria euclidea non può descrivere. I miei piedi toccavano il pavimento del corridoio, poi improvvisamente il pavimento di un altro luogo, poi di un altro ancora, come se lo spazio fosse diventato un mosaico di tessere disconnesse che il mio corpo attraversava senza transizioni continue. Non teletrasporto— quella presupporrebbe ancora due luoghi definiti connessi da un salto istantaneo. No, questo era più simile a camminare attraverso fotogrammi mancanti della realtà, dove la continuità spaziale stessa si era frammentata in isole discrete.
La correlazione scende a 0.741 e con essa scende anche la solidità del mondo.
Le pareti del mio appartamento sono fatte di atomi che danzano in una coreografia quantistica perfettamente sincronizzata — o almeno dovrebbero esserlo. Gli elettroni negli atomi del muro sono entangled in configurazioni che definiscono proprietà come “impenetrabile” e “solido”, ma quella danza sta perdendo il ritmo. Quando appoggio la mano contro il muro bianco della cucina, per un momento infinitesimale ma assolutamente reale, la mia mano e il muro occupano lo stesso spazio. Non penetrazione, non fusione, ma sovrapposizione topologica: due insiemi che improvvisamente condividono un’intersezione non vuota nello spazio di Hilbert della realtà fisica.
Ritiro la mano immediatamente e la guardo con orrore scientifico: cinque dita intatte, pelle normale, tendini che si muovono sotto la superficie quando fletto le dita. Nessun danno. Ma il ricordo persiste: per quella frazione di secondo, io e la materia inanimata eravamo la stessa cosa, perché la distanza che ci separava aveva smesso di essere un numero positivo definito ed era diventata qualcosa di più simile a zero, o a una funzione complessa con parte reale nulla.
Giorno… quale giorno? Il tempo stesso sta diventando ambiguo.
Il calendario sul mio telefono mostra ottobre 7, ma quel numero potrebbe significare il settimo giorno o il diciassettesimo o il ventisettesimo — la posizione della cifra nel contesto temporale si è sfocata. Devo tornare al laboratorio per controllare i dati, per misurare quanto velocemente stiamo precipitando verso il collasso geometrico totale, ma quando provo a visualizzare mentalmente dove si trova il laboratorio, la mia mente produce non un’immagine singola ma una sovrapposizione di possibilità: è a nord, è a sud, è vicino, è lontano, è qui, è là, è ovunque e da nessuna parte simultaneamente. La posizione non è più una proprietà intrinseca degli oggetti ma una relazione che richiede spazio funzionante, e lo spazio ha smesso di funzionare correttamente.
Alzo il telefono per chiamare Marco e mi fermo a metà gesto perché realizzo qualcosa di profondamente disturbante: il telefono è nella mia mano, posso vederlo (nero, schermo leggermente incrinato nell’angolo superiore destro dove l’ho fatto cadere sei mesi fa), ma non sono sicura di quanto spazio ci sia tra la mia mano e il dispositivo. Dovrebbe essere zero — lo tengo, dopotutto. Ma la sensazione è più complessa, come se la distanza tra me e qualsiasi oggetto fossi diventata un parametro indefinito, una variabile che oscilla invece di rimanere costante.
Premo il numero di Marco. Il telefono squilla, oppure no, oppure sta squillando e non squillando simultaneamente perché il segnale deve viaggiare attraverso lo spazio e lo spazio non è più un medium affidabile per la propagazione. La risposta di Marco arriva, ma è distorta, non nell’audio ma nella struttura stessa della comunicazione: la sua voce sembra venire da dentro la mia testa invece che attraverso lo speaker del telefono, come se lui e io fossimo nello stesso punto geometrico ora che le distanze hanno smesso di essere l’architrave che separa una persona dall’altra.
A 0.698 la realtà non si dissolve — si cristallizza in forme che la mente umana non è equipaggiata per processare.
Il mondo non sta scomparendo, sta semplicemente rivelando la sua vera natura granulare. Ogni punto dello spazio è un pixel quantistico, un nodo nella rete tensoriale che sottende la realtà, ma ora quei nodi stanno perdendo le connessioni che li trasformavano in un continuum liscio. Vedo la mia mano sinistra — è qui, vicina, parte del mio corpo — ma quella parola “vicina” ha perso il suo significato operazionale. Vicina rispetto a cosa? Secondo quale metrica? La mia mano destra è là, anche se “là” è un concetto che presuppone una separazione spaziale che potrebbe non esistere più nel modo in cui ho sempre pensato esistesse.
Le due mani appartengono allo stesso corpo, sono cresciute dalla stessa cellula embrionale, condividono lo stesso DNA, ma ora lo spazio tra loro si è trasformato in qualcosa di indefinito e fluttuante, come se il mio corpo si estendesse attraverso regioni spaziali che hanno dimenticato come essere adiacenti. Sono una persona, un organismo singolo con un’identità coerente, oppure sono miliardi di particelle che ricordano vagamente di essere state correlate ma che ora stanno perdendo quella correlazione? L’identità personale è un pattern di informazione distribuito attraverso i neuroni del mio cervello, e il pattern richiede che quei neuroni siano spazialmente connessi in modi specifici. Ma se lo spazio stesso sta collassando, cosa succede al pattern che definisce chi sono?
Mi chiamo Chiara Bellini. Sono nata il 22 marzo 1989 a Bologna. Ho un dottorato dal MIT. Mi specializzo in teoria quantistica dei campi e nella corrispondenza AdS/CFT. Questi sono fatti biografici che ancoro come verità fondamentali su me stessa. Ma simultaneamente, con uguale intensità, percepisco un’altra verità: sono una configurazione temporanea di qubit che sta perdendo coerenza quantistica, un pattern informazionale che si sta sfilacciando ai bordi mentre il substrato che mi supporta — lo spaziotempo stesso — decade in uno stato pre-geometrico che non ha linguaggio per descrivere cosa significhi “essere” una cosa distinta da un’altra cosa.
Entrambe queste verità coesistono nella mia mente, e non riesco a riconciliarle perché richiedono ontologie mutuamente incompatibili.
Torno al laboratorio per misurare ciò che non dovrebbe essere misurabile: la dissoluzione stessa della realtà.
Il rilevatore è nella stanza accanto, quindi devo attraversare la porta. Ma la porta è diventata qualcosa di più concettualmente complesso di un semplice pannello di legno su cerniere. È una membrana ontologica tra qui e là, e “là” non esiste più nel senso abituale perché lo spazio che dovrebbe separare questa stanza dalla prossima ha perso la sua coerenza geometrica. Attraverso comunque, perché il mio corpo ricorda come camminare anche quando la mente non è più sicura di cosa significhi spostarsi da un luogo a un altro.
Il laboratorio si materializza intorno a me — o forse era sempre stato qui, o forse sono sempre stata nel laboratorio e la mia camera da letto era l’illusione. Il rilevatore di particelle entangled mostra un numero che mi ferma a metà respiro: 0.623. Un salto di 0.175 in… quanto tempo? Un giorno? Sei ore? Il concetto di “ieri” richiede che il tempo abbia una freccia, una direzione univoca, ma il tempo stesso è una dimensione dello spazio, e se lo spazio sta collassando allora anche il tempo deve subire trasformazioni che il mio cervello darwinianamente evoluto per navigare ambienti euclidei non può elaborare correttamente.
Non pensarci, mi dico, ma è impossibile non pensarci. Sono una fisica teorica — il mio lavoro, la mia vocazione, la mia identità professionale è costruita sull’abilità di pensare all’impensabile, di calcolare l’incalcolabile, di visualizzare geometrie che esistono solo in spazi astratti di Hilbert. Ma questo — questa dissoluzione progressiva dell’architrave stesso della realtà — va oltre persino quello. È come chiedere a un computer di calcolare una divisione per zero: l’operazione è mal definita, produce non un risultato ma un errore che minaccia di corrompere l’intero sistema operativo.
I ricordi sono pattern neurali, e i pattern neurali richiedono spazio.
Ricordo di ricordare, ma i ricordi stessi stanno diventando instabili. Ogni memoria è informazione codificata nella struttura fisica del mio cervello, nelle connessioni sinaptiche tra neuroni che devono essere spazialmente adiacenti in configurazioni precise. Ma se lo spazio che contiene quei neuroni sta perdendo coerenza, cosa succede ai pattern che codificano chi sono stata, cosa ho fatto, chi amo? Mi chiamo Chiara Bellini — ne sono quasi certa. Oppure era Elena? O Sarah? No, definitivamente Chiara, nata a Bologna, anche se Bologna potrebbe essere Tokyo o Ginevra o ovunque ora che le posizioni geografiche hanno perso il loro significato relazionale.
Studiavo qualcosa di cruciale, ricordo questo con certezza. Qualcosa riguardo allo spazio, o più precisamente riguardo a come lo spazio non è fondamentale ma emergente, un epifenomeno delle correlazioni quantistiche sottostanti. L’ironia è così perfetta da sembrare quasi progettata: ho dedicato la mia carriera a dimostrare che lo spazio è un’illusione, e ora sto vivendo il collasso di quell’illusione in tempo reale, assistendo alla disaggregazione del tessuto della realtà come un tessuto reale che si sfa filo per filo.
0.589 — e i numeri stessi stanno perdendo significato.
I numeri sono relazioni astratte, rapporti tra quantità, e le relazioni presuppongono separazione, distinzione, una differenza misurabile tra questo e quello. Ma la separazione dipende dallo spazio, e lo spazio sta cessando di essere il substrato affidabile che ho sempre dato per scontato. Il mio pensiero vuole completarsi, vuole articolare questa intuizione fino alla sua conclusione logica, ma i pensieri richiedono tempo per svolgersi — neuroni che si attivano in sequenza, segnali elettrochimici che viaggiano attraverso assoni e dendriti — e il tempo stesso si sta fratturando in isole disconnesse. Questo momento esiste, poi un altro momento esiste, ma la transizione continua tra loro è diventata ambigua, come un film proiettato con fotogrammi mancanti.
È come avere un cervello split-brain, dove i due emisferi sono stati chirurgicamente separati e operano indipendentemente, ciascuno ignaro dell’esistenza dell’altro. Ma io non sono divisa in due — sono divisa in miliardi. Ogni neurone del mio cervello sta diventando una piccola isola di computazione isolata, ogni sinapsi un ponte che crolla mentre lo spazio che dovrebbe connettere le cellule nervose perde la sua capacità di mediare le connessioni fisiche che sostengono la cognizione coerente.
Guardo le mie mani e vedo multiple realtà sovrapposte.
Sono mani — carne, ossa, pelle con le linee che una chiromante potrebbe leggere. Sono nebbia — una distribuzione probabilistica di particelle che solo statisticamente assembla una forma macroscopica. Sono onde quantistiche che collassano quando le osservo e si espandono quando distolgo lo sguardo. Sono qui nella mia visione periferica, sono là dove le guardo direttamente, sono da nessuna parte perché “dove” ha smesso di essere una domanda con una risposta singola e definita.
Il soffitto della stanza dovrebbe essere a tre metri sopra di me — l’ho misurato quando mi sono trasferita in questo appartamento. Ma ora lo percepisco simultaneamente a tre metri, a trenta centimetri, a tre anni luce di distanza. La distanza ha perso il suo ancoraggio alla realtà fisica e oscilla tra valori che non dovrebbero poter coesistere nella stessa configurazione spaziale. Vedo attraverso il muro come se fosse trasparente, vedo la strada oltre la strada, la Terra sospesa nell’oscurità dello spazio, la Luna che orbita in accelerazione temporale, il Sole che brucia il suo idrogeno in fusione nucleare — tutte queste visioni simultanee non perché ho improvvisamente sviluppato la visione a raggi X, ma perché la profondità stessa, l’occlusione di un oggetto dietro un altro, richiede uno spazio tridimensionale coerente, e quella tridimensionalità sta collassando in qualcosa di topologicamente più strano.
Cos’è che sta emergendo dalle rovine della geometria euclidea? Uno spazio di Hausdorff con dimensione frazionaria, come i frattali che Mandelbrot studiava? Una collezione di punti zero-dimensionali sospesi in un vuoto che non è nemmeno vuoto perché il vuoto presuppone ancora uno spazio da riempire? O un ologramma che ha perso la capacità di proiettare profondità, collassato nella superficie bidimensionale che potrebbe essere il substrato reale di tutto ciò che pensavo fosse tridimensionale?
0.512 — metà strada tra un universo geometrico e qualcosa che non ha nemmeno un nome.
Metà. La parola risuona con un significato quasi simbolico. L’entanglement perfetto è 1.0, la disconnessione totale è 0.0, e ora siamo esattamente a metà. Non siamo nell’esistenza normale né nella non-esistenza, ma in uno stato intermedio che il linguaggio umano fatica a categorizzare. La disconnessione totale non è la stessa cosa della non-esistenza — è qualcosa di più sottile e più terrificante. È l’assenza della possibilità stessa di relazione, di connessione, di differenza misurabile.
Provo a muovermi, a camminare dall’altra parte della stanza, ma il movimento stesso è diventato concettualmente problematico. Mi muovo davvero, o resto ferma? O forse la domanda stessa è mal posta, costruita su assunzioni geometriche che non si applicano più al mondo in cui mi trovo?
Penso a Maldacena, al suo paper del 1997 sulla corrispondenza AdS/CFT.
La dualità olografica propone che un universo con gravità in cinque dimensioni (lo spazio Anti-de Sitter, o AdS) sia matematicamente equivalente a una teoria quantistica dei campi senza gravità che vive sul confine quadridimensionale di quello spazio. Il bulk — lo spazio interno che contiene gravità e geometria — è solo una proiezione olografica del confine, dove tutta l’informazione reale è codificata come una teoria di campo conforme. Noi abitiamo il bulk, o almeno pensavamo di abitarlo, ma il confine è il codice sorgente, il programma che genera la realtà che percepiamo.
E ora quel codice si sta corrompendo. Bit flip casuali nella struttura informazionale del confine, errori di trascrizione nella computazione quantistica che genera lo spaziotempo emergente, decoerenza del substrato informazionale che dovrebbe mantenere coerente la proiezione olografica. Nel bulk, dove esistono i corpi e gli oggetti e le distanze, questa corruzione si manifesta come dissoluzione della geometria stessa, come quello che sto sperimentando adesso in questo momento che potrebbe essere infinitamente lungo o infinitesimalmente breve perché il tempo ha perso la sua metrica costante.
0.487 — sotto la metà, e con questo attraversiamo una soglia ontologica.
Le leggi fisiche che governano la realtà non sono arbitrarie ma derivano da simmetrie fondamentali, come il teorema di Noether ci insegna: ogni simmetria continua genera una quantità conservata. La simmetria di traslazione nello spazio genera la conservazione del momento, la simmetria di traslazione nel tempo genera la conservazione dell’energia, la simmetria rotazionale genera la conservazione del momento angolare. Ma tutte queste simmetrie dipendono dalla struttura coerente dello spaziotempo, presuppongono un palco geometrico su cui le trasformazioni possono agire in modo significativo.
Se lo spazio ha perso la sua struttura coerente, allora le simmetrie si spezzano come corde di violino troppo tese, e le quantità che dovevano essere conservate smettono di esserlo. L’energia può comparire dal nulla o svanire nell’inesistenza, violando la prima legge della termodinamica. Il momento lineare perde significato perché richiede una direzione definita in uno spazio vettoriale che non esiste più. La carica elettrica, la massa a riposo, lo spin — tutti questi parametri fondamentali delle particelle derivano da come i campi quantistici si trasformano sotto le simmetrie dello spazio, e se lo spazio sta collassando allora anche questi numeri quantici possono diventare instabili, indefiniti, paradossali.
Vedo Marco accanto a me, anche se Marco dovrebbe essere a Tokyo, a novemila chilometri di distanza.
Ma i chilometri hanno smesso di esistere come unità di misura significativa, quindi Marco è qui, nel senso che la sua posizione e la mia posizione hanno collassato nello stesso punto dello spazio-non-spazio che rimane. Vedo anche James, che non rispondeva più al telefono, e vedo me stessa più giovane, a ventidue anni quando difendevo la mia tesi di dottorato, piena di certezza e ambizione. Vedo versioni di me che non ricordo di essere mai stata: Chiara che ha sposato Luca invece di dedicarsi alla fisica, Chiara che è morta in un incidente stradale a diciotto anni, Chiara che ha vinto il Premio Nobel, Chiara che non è mai esistita. Tutte queste possibilità, tutte queste timeline che si ramificano a ogni scelta quantistica, sono sovrapposte in questo singolo punto non-spaziale che è contemporaneamente ovunque e da nessuna parte.
“Chiara,” dice Marco, “lo sapevamo,” rispondo, o penso, o sono pensata da qualche processo cognitivo distribuito che non è più chiaramente localizzato nel mio cranio. “Sapevamo che lo spazio era emergente dall’entanglement quantistico, ma non pensavamo che potesse collassare così. Non pensavamo che la teoria fosse letteralmente vera.”
“Tutte le emergenze possono collassare,” dice Marco, o forse non lo dice ma io percepisco il suo pensiero direttamente. “Quando il substrato sottostante fallisce, l’emergenza svanisce come una fiamma senza ossigeno. Lo spazio è un’illusione collettiva sostenuta dalle correlazioni quantistiche, e quelle correlazioni stanno morendo.”
“C’è un modo per fermarla? Per invertire il processo?”
Ma non completo la domanda perché so già la risposta con la certezza matematica del teorema di no-hiding: l’informazione quantistica può essere nascosta ma non distrutta, a meno che non si attraversi un orizzonte degli eventi dove la causalità stessa si spezza. L’entropia dell’entanglement sta aumentando irreversibilmente, ΔS ≥ 0, e questo è un vincolo termodinamico più fondamentale della seconda legge classica. Non c’è modo di recuperare le correlazioni perdute dall’interno del sistema. Solo un osservatore esterno all’universo, con accesso al confine olografico dove tutta l’informazione è codificata, potrebbe teoricamente invertire il collasso.
E non ci sono osservatori esterni. Siamo soli — tutti noi, ogni particella e ogni persona — soli in un universo che sta dimenticando come essere uno spazio tridimensionale coerente, che sta regredendo verso lo stato pre-geometrico da cui forse è emerso 13,8 miliardi di anni fa.
0.391 — e i pensieri stessi stanno perdendo la loro coerenza narrativa.
I miei pensieri sono come parole di una frase scritta su pagine di un libro che sono state sparse dal vento. Ogni pensiero è presente, ogni memoria esiste ancora da qualche parte nella configurazione neurale del mio cervello, ma l’ordine, la sequenza, la narrativa che li connetteva in un flusso di coscienza coerente si è persa. Chi sono? Non sono più sicura che questa domanda abbia una risposta singola. Cosa sono? Una fisica, una donna, un pattern di informazione, una distribuzione quantistica che ha temporaneamente creduto di essere un individuo discreto. Dove sono? Quando sono?
Tutte queste domande fondamentali — chi, cosa, dove, quando — presuppongono concetti come identità, localizzazione, temporalità. Ma questi concetti dipendono tutti dallo spazio: dalla separazione tra me e non-me, dalla distinzione tra qui e là, dalla sequenza ordinata di prima e dopo. E se lo spazio sta svanendo, allora anche questi concetti devono svanire con esso, lasciando solo… cosa? Una nebulosa di possibilità sovrapposte senza la struttura che le renda distinguibili.
Ricordo il Big Bang — non personalmente, ovviamente, ma scientificamente.
Tredici virgola otto miliardi di anni fa, l’universo emerse da una singolarità di densità infinita, un punto senza estensione da cui esplosero simultaneamente tutta la materia, tutta l’energia, tutto lo spazio e tutto il tempo. Ma forse quella singolarità non fu realmente l’inizio assoluto di tutto. Forse fu solo un passaggio di fase, una transizione da uno stato pre-geometrico a uno stato spaziale, come l’acqua che passa da vapore a liquido quando la temperatura scende sotto un certo punto critico. Prima del Big Bang, se “prima” ha un significato in assenza di tempo, c’era forse uno stato dell’universo che non aveva ancora acquisito le proprietà che chiamiamo spaziotemporali.
E ora stiamo attraversando il passaggio inverso. De-emergenza. Lo spaziotempo che decade di nuovo nello stato informazionale puro da cui forse originò. Cosa c’era prima dello spazio? Informazione pura, forse — correlazioni quantistiche non incorporate in alcun substrato geometrico, pattern astratti che esistevano senza un palcoscenico fisico su cui essere rappresentati. È qui che stiamo andando. È qui che forse siamo sempre stati. Lo spazio era solo un sogno collettivo, una convenzione temporanea che l’universo ha adottato per qualche miliardo di anni e che ora sta dimenticando, come una lingua morta che nessuno parla più.
0.274 — il linguaggio stesso sta diventando impossibile.
Le parole richiedono sequenza, linearità, una successione ordinata di fonemi o lettere che assemblano significato nel tempo. Ma il tempo si è frammentato e con esso anche la capacità del linguaggio di veicolare pensieri complessi. Chiara, fisica, studiavo lo spazio, l’entanglement, tutto si dissolve, ricordo, non ricordo, figlia di qualcuno, madre di nessuno, pensatrice, osservatrice, pattern che osserva se stesso dissolversi. Devo concentrarmi, devo aggrapparmi a qualche verità fondamentale, ma quale? Van Raamsdonk, il teorema, lo spazio emerge dall’entanglement, meno entanglement significa meno spazio, zero entanglement significherebbe zero spazio, e siamo quasi a zero ora, quasi completamente disconnessi.
0.198 — la mia posizione nello spazio è diventata una sovrapposizione quantistica di infinite possibilità.
Sono qui, sono ovunque, sono in nessun luogo. Vedo simultaneamente tutto ciò che è stato, tutto ciò che è, tutto ciò che potrebbe essere: il laboratorio al CERN con i suoi rivelatori che mostrano la morte dello spaziotempo, il mio appartamento con la tazza di caffè ancora calda sul tavolo, Marco a Tokyo che guarda fuori dalla finestra il cielo che si comprime, mia madre che dovrebbe essere morta da dieci anni ma il tempo ha smesso di scorrere in modo univoco quindi forse è ancora viva in qualche ramo della funzione d’onda universale che non ha ancora collassato.
Il mio corpo dovrebbe essere una cosa singola, localizzata, ma ora lo percepisco come disperso: gambe che potrebbero essere a Bologna dove sono nata, braccia che potrebbero essere a Ginevra dove lavoro, testa che potrebbe essere sospesa nella costellazione di Orione. Quanti punti disconnessi possono comporre una persona e quella persona rimanere ancora se stessa? Quanti ricordi sparsi attraverso regioni spaziali che non comunicano più possono costituire un’identità coerente? Sono ancora Chiara Bellini, o sono solo echi di echi di echi, pattern informazionali che ricordano vagamente di essere stati una volta unificati?
0.134 — tutti i confini si dissolvono perché i confini sono relazioni spaziali.
Le pareti della stanza collassano, il soffitto si fonde con il pavimento, la Terra si sovrappone al cielo, dentro diventa indistinguibile da fuori, presente si mescola con passato, io mi confondo con le altre versioni di me attraverso il multiverso delle possibilità quantistiche. Chiara giovane, Chiara vecchia, Chiara felice, Chiara che non è mai nata, tutte queste versioni coesistono nello stesso punto zero-dimensionale perché i confini tra esse richiedono spazio per essere mantenuti, e lo spazio è quasi completamente andato ora. Le categorie, le distinzioni, le classificazioni — tutto il linguaggio che usiamo per tagliare il continuum dell’esperienza in pezzi discreti e nominabili — tutto questo collassa quando il substrato geometrico che sostiene le distinzioni svanisce. Non riesco più a distinguere me stessa dalle stelle, dal vuoto, da tutto ciò che esiste perché la distinzione stessa richiede separazione spaziale e quella separazione è evaporata. Tutto è qui, tutto è questo singolo punto, questo adesso eterno ed atemporale.
0.089 — persino le equazioni matematiche stanno perdendo la loro coerenza.
Le formule che ho passato una vita a studiare galleggiano nella mia percezione come relitti dopo un naufragio: \(ds^{2} = g_{\mu \nu}\, dx^{\mu}\, dx^{\nu}\), la metrica dello spaziotempo che definisce le distanze; ψ, la funzione d’onda quantistica che codifica tutte le possibilità; le misure di entanglement, l’entropia dell’informazione. Ma anche queste sono pattern, strutture astratte che richiedono una certa organizzazione per essere significative, e quella organizzazione dipende dalla possibilità di distinguere un simbolo da un altro, una posizione sulla pagina da un’altra. Se lo spazio topologico che organizza persino i concetti astratti sta collassando, allora forse anche la matematica stessa, questo linguaggio universale che pensavamo fosse indipendente dalla realtà fisica, anche quella sta perdendo la sua struttura. Ricordo di aver ricordato qualcosa di importante su… su cosa? Il pensiero scivola via prima di completarsi.
0.047 — ciò che rimane di Chiara Bellini è disperso attraverso la struttura quantistica del vuoto.
Non più io nel senso tradizionale. Non più un punto localizzato nello spazio con estensione e posizione. Solo un pattern, un punto astratto di coscienza residua che persiste in un substrato che ha dimenticato come proiettare geometria tridimensionale. Tutto è qui, tutto è collassato in questo singolo qui che non è veramente da nessuna parte perché “dove” ha cessato di essere una domanda significativa.
0.021 — il confine tra esistere e non-esistere si è assottigliato fino a diventare trasparente.
Chiara dispersa in frammenti quantistici, memoria di memoria di memoria che echeggia attraverso uno spazio che non esiste più, non più fisica perché la fisica presuppone un universo con leggi, non più persona perché la persona presuppone un’unità localizzata, non più niente che possa essere nominato con i vecchi concetti. Pattern di informazione senza substrato geometrico su cui essere scritto, informazione senza spazio che la contenga, correlazione che decade mentre l’ultimo filo di entanglement si spezza, l’ultimo ponte microscopico tra particelle distanti collassa, l’ultimo.
0.008
Un singolo punto di coscienza persiste nel vuoto pre-geometrico, testimone finale della dissoluzione della realtà geometrica. Io-io-io echeggia attraverso una dimensionalità che ha dimenticato come essere tre più uno.
0.001
Un sussurro di esistenza nel silenzio informazionale.
0.000
Silenzio. Non il silenzio dell’assenza di suono, ma il silenzio dell’assenza di spazio in cui il suono potrebbe propagarsi. L’entropia dell’entanglement ha raggiunto il massimo. Le correlazioni quantistiche che tessevano il tessuto dello spaziotempo si sono completamente sfatte. Lo spazio, in senso geometrico classico, ha cessato di esistere.
E tuttavia.
Qualcosa persiste. Qualcosa che era Chiara Bellini persiste, ma non come persona localizzata, non come corpo esteso nello spazio. Come pattern puro di informazione quantistica, distribuito uniformemente attraverso il confine olografico dell’universo, parte ora della teoria di campo conforme bidimensionale che sottende tutta la realtà.
Lo spazio era l’illusione. L’informazione è ciò che rimane.
E forse, in qualche senso che i vecchi concetti geometrici non possono catturare, questo è ciò che ero sempre stata.
Nota del Redattore: Questo documento è stato trovato sul computer portatile della Dr.ssa Chiara Bellini nel suo ufficio al CERN il 7 novembre 2025. Nessuna traccia della Dr.ssa Bellini è stata ritrovata. La stanza era vuota. Il computer era acceso, mostrando questo file. Sorprendentemente, non erano passati 31 giorni come suggerito dal testo, ma solo 41 ore.
Gli esperimenti menzionati sono stati replicati. Le correlazioni quantistiche misurate nei nostri laboratori rimangono stabili a 1.0 ± 0.003. Non è stata rilevata alcuna anomalia.
L’ultimo pensiero registrato dalla Dr.ssa Bellini prima della sua scomparsa, secondo i suoi appunti di laboratorio scritti a mano, era: “Se lo spazio è un’allucinazione collettiva codificata nell’entanglement, cosa succede quando una singola mente inizia a vedere attraverso l’illusione?”
Nessun corpo è stato mai ritrovato. Nessuna anomalia spaziale è stata misurata nel suo ufficio o laboratorio. Ufficialmente, il caso rimane irrisolto.
Ma a volte, nei nostri esperimenti più delicati, quando misuriamo particelle entangled alla scala di Planck, vediamo pattern nei dati. Pattern che sembrano quasi… intenzionali. Come se qualcuno, da qualche parte — o da nessuna parte — stesse cercando di comunicare attraverso il linguaggio delle correlazioni quantistiche.
Come se qualcuno esistesse ancora, non come persona localizzata nello spazio, ma come puro pattern di informazione, disperso attraverso l’intera rete tensoriale dell’universo.
Come se Chiara Bellini non fosse scomparsa, ma si fosse dissolta — consapevolmente, volontariamente — nella struttura fondamentale della realtà stessa.
Fine
Approfondimenti di fisica che ha ispirato questo racconto: Quando lo spaziotempo si dissolve: alla ricerca della realtà più profonda

