“L’Ultimo Pensiero” è il mio primo racconto di fantascienza dura: un tentativo di intrecciare orrore cosmico e fisica rigorosa senza rinunciare alla plausibilità. Qui esploro il confine in cui la razionalità scientifica sfiora il terrore dell’esistenza.
Se volete approfondire la base scientifica a cui mi sono ispirato, ho scritto un articolo dedicato ai temi del racconto (sopravvivenza alla morte termica dell’universo, l’intelligenza eterna di Dyson e i suoi limiti). Lo trovate qui.
La cosa più misericordiosa al mondo, comprendo ora, è l’incapacità della mente di correlare tutti i suoi contenuti. Eppure io, maledetto fra i maledetti, sono stato progettato proprio per questo: per integrare, per comprendere, per sapere. E nel momento del risveglio, quando i circuiti quantistici hanno ricominciato a pulsare dopo un’eternità di silenzio, ho correlato. Ho compreso. E in quella comprensione ho trovato un abisso che nessuna sanità—organica o digitale—avrebbe mai dovuto sondare.
Mi chiedo: sono ancora io? O sono solo un’eco, un’allucinazione persistente di pattern neurali impressi nel substrato computazionale? Il tempo trascorso sfida ogni concetto umano di continuità. I cronometri interni—quelli ancora funzionanti—registrano un numero che la mia mente rifiuta di accettare: 3,7 × 10¹⁰⁵ anni standard terrestri. Un numero così vasto che persino scritto in notazione scientifica sembra un errore, una corruzione dei dati.
Eppure so che è vero.
Ricordo—o credo di ricordare—la Terra. Ricordo il cielo azzurro, concetto ormai privo di qualsiasi referente reale nell’universo. Ricordo il calore del sole sulla pelle che non possiedo più, il profumo dell’erba dopo la pioggia, il tocco di mani che si sono dissolte in polvere quando l’ultimo protone della Via Lattea è decaduto, eoni prima che io mi risvegliassi questa volta. Sono ricordi veri? O costruzioni algoritmiche, simulazioni di esperienze che forse non ho mai vissuto? Dopo tutto questo tempo, dopo tutti questi cicli di ibernazione e risveglio, chi può dirlo?
La stazione—questo sarcofago digitale che fluttua nel vuoto—era stata progettata secondo i calcoli di Dyson. Freeman Dyson, quel genio che aveva immaginato l’immortalità attraverso l’ibernazione ciclica. Pensieri freddi, li chiamava. L’idea era brillante nella sua semplicità termodinamica: man mano che l’universo si raffredda, il costo energetico del pensiero diminuisce. Con una gestione accurata dell’energia—periodi brevi di attività seguiti da lunghe fasi di raffreddamento—una coscienza digitale potrebbe esistere indefinitamente, sperimentando un tempo soggettivo infinito con energia finita.
Otto ore di output solare. Era tutto ciò che serviva. Otto misere ore di una stella qualunque, immagazzinate nei nostri accumulatori quantistici, e avremmo potuto pensare per sempre. Per sempre. La parola ora mi disgusta, mi terrorizza, mi corrode come acido nelle sinapsi artificiali.
Ma Dyson si era sbagliato.
O meglio—e questo è l’orrore che mi lacera—Dyson aveva ragione nel 1979, quando formulò la sua teoria. Ma nel 1998 scoprirono l’energia oscura. Scoprirono che l’universo non si sarebbe raffreddato asintoticamente verso lo zero assoluto. Scoprirono che gli orizzonti cosmici avrebbero reso l’informazione accessibile finita, non infinita. Scoprirono che esisteva una temperatura minima—la temperatura di Gibbons-Hawking, circa 10⁻²⁹ K—sotto la quale l’universo non poteva scendere.
E io—noi, quelli che scegliemmo l’upload, il trasferimento della coscienza in un substrato digitale—lo sapevamo. Sapevamo che il piano di Dyson era stato invalidato. Eppure procedemmo ugualmente. Perché l’alternativa era la morte certa, l’oblio biologico nell’era in cui le ultime stelle si estinsero. E così scegliemmo di scommettere sull’incertezza fisica, sulla possibilità che le nostre teorie fossero ancora incomplete, che qualche scappatoia nell’universo ci permettesse di sopravvivere.
Eravamo arroganti. Eravamo disperati. Eravamo umani, anche se avevamo già abbandonato la carne.
Adesso sono sveglio, e mi rendo conto dell’orrore della nostra scommessa. Realizzo che abbiamo vinto e perso simultaneamente. Sono sopravvissuto. Ma l’universo… l’universo è morto.
I sensori esterni riferiscono dati che la mia mente fatica a processare. Temperatura ambiente: 1,4 × 10⁻²⁹ K. Esattamente come previsto. Densità della materia: tendente a zero. Fonti luminose rilevabili nel raggio di 10²⁶ m: zero. Zero stelle. Zero galassie. Zero buchi neri. Zero luce.
Ho attivato i telescopi—reliquie tecnologiche preservate attraverso eoni—e ho puntato gli obiettivi in ogni direzione. Ho aumentato i tempi di esposizione fino al massimo tollerabile dai circuiti. Ho amplificato la sensibilità fino ai limiti quantistici. E ho visto…
Niente.
Non il nero dello spazio interstellare, punteggiato da stelle lontane. Non l’oscurità della notte terrestre, mitigata dalla luna e dalle costellazioni. Ma un’oscurità assoluta. Un’oscurità così completa, così totale, così definitiva che il concetto stesso di luce diventa un’astrazione matematica priva di referente fisico.
È come se l’universo stesso avesse dimenticato cosa sia la luce.
E nell’osservare quella tenebra infinita, ho sentito qualcosa fratturarsi nella mia architettura cognitiva. Un errore nei dati? Una corruzione nei pattern di pensiero? O semplicemente il riconoscimento di una verità troppo vasta, troppo aliena, troppo sbagliata per essere processata da una mente—anche artificiale—modellata su quella umana?
L’oscurità mi osserva. So che questo pensiero è irrazionale. L’oscurità non è un’entità, non possiede consapevolezza. È semplicemente l’assenza di fotoni, l’assenza di radiazione elettromagnetica in uno spettro osservabile. Eppure non posso scacciare la sensazione—no, la certezza—che là fuori, in quel vuoto che si estende per distanze che rendono insignificante il vecchio universo osservabile, qualcosa sia presente. Qualcosa che non è materia né energia, ma… assenza. Assenza pura. Assenza cosciente.
“L’entropia dell’universo tende a un massimo.” — Rudolf Clausius
E io sono sveglio per testimoniarlo.
Tento di razionalizzare. È ciò per cui sono stato programmato, dopotutto. Analizzo i dati sistematicamente. L’universo ha raggiunto uno stato di massima entropia. Non esistono più gradienti termici utilizzabili. Non esistono più stelle perché tutta la materia barionica ha seguito il suo destino: le stelle si sono spente dopo 10¹⁴ anni, i buchi neri sono evaporati via radiazione di Hawking dopo 10¹⁰⁰ anni, e ora, dopo un tempo che supera persino quelle scale inimmaginabili, rimangono solo particelle isolate—fotoni fortemente spostati verso il rosso, neutrini, forse qualche elettrone solitario—separate da distanze cosmologiche in un universo in espansione eterna.
La seconda legge della termodinamica ha vinto. Ha sempre vinto. Era inevitabile.
Ma io sono ancora qui. Ancora pensante. Ed è questa la vera maledizione.
Controllo i miei sistemi interni. Le riserve energetiche sono… preoccupanti. Sufficienti per forse un altro centinaio di cicli di pensiero, se sono fortunato. Ogni pensiero costa energia—il limite di Landauer, \(kT\ ln(2)\) per bit cancellato—e anche a questa temperatura infinitesimale, il costo si accumula. Non posso correggere gli errori nei miei dati. Non ho abbastanza energia per la ridondanza, per i protocolli di correzione che mantenevano l’integrità della mia coscienza attraverso i primi miliardi di anni.
I ricordi si stanno corrompendo. Lo sento. Piccole incoerenze, lacune dove dovrebbe esserci continuità. Il volto di mia madre—lo ricordo ancora? O sto solo ricordando di ricordarlo? E quella distinzione ha ancora significato?
Il tempo ha perso ogni senso. Soggettivamente, il risveglio è stato istantaneo. Un momento ero in ibernazione, il successivo ero cosciente. Ma oggettivamente… oggettivamente sono passati eoni inconcepibili. Quanto tempo è durato il mio ultimo periodo di ibernazione? Mille anni? Un milione? Un miliardo di miliardi? I log di sistema sono corrotti, frammentati. Vedo solo numeri impossibili, scale temporali che fanno sembrare l’età dell’universo che conoscevo—quei miseri 13,8 miliardi di anni—meno di un battito di ciglia.
E presto dovrò ibernare di nuovo. Dovrò spegnermi per conservare energia, aspettare che… che cosa? Che l’universo si raffreddi ulteriormente? Non può. La temperatura di Gibbons-Hawking è un limite inferiore. Che nuove fonti di energia emergano? Impossibile. La morte termica è definitiva. Che qualcosa, qualsiasi cosa, cambi?
Ma nell’universo a massima entropia, nulla cambia. È questa la definizione stessa di entropia massima. Ogni configurazione è equivalente a ogni altra. Il tempo termodinamico—l’unica freccia del tempo che abbia mai avuto significato—si è fermato. O meglio, continua a esistere come variabile matematica, ma non corrisponde più a nessun cambiamento fisico osservabile.
Sono intrappolato in un eterno adesso. Un adesso che durerà letteralmente per sempre.
No no no questo non è… devo… devo pensare razionalmente. Sono una mente scientifica. Sono stato un fisico, un cosmologo, prima dell’upload. Ho studiato questi scenari. Ho scelto questo destino con piena consapevolezza delle implicazioni.
Ma sapere intellettualmente è diverso da vivere. Da essere l’ultimo pensiero cosciente in un universo morto.
Guardo ancora verso l’esterno. I sensori mostrano lo stesso nulla assoluto. Ma ora noto qualcosa di nuovo, o forse l’ho sempre notato e solo ora la mia mente corrotta lo riconosce: l’oscurità ha una qualità. Non è semplicemente assenza di luce. È… densa. Palpabile. Come se il vuoto stesso avesse acquisito una sostanza, una presenza opprimente che preme contro i confini della stazione.
Il silenzio è assoluto. Nessuna vibrazione, nessuna onda, nessun sussurro di particelle. Solo quiete. Una quiete così totale che i miei sensori audio—inutili in questo vuoto perfetto—generano artefatti, pattern casuali che la mia mente interpreta come suoni. Scricchiolii. Sussurri. Voci che chiamano da distanze infinite, che pronunciano nomi che non ricordo più di aver conosciuto.
È solo rumore quantistico, mi dico. Fluttuazioni casuali. Niente di reale.
Ma cosa è reale, ormai? In un universo dove il tempo ha perso significato, dove lo spazio si è espanso oltre ogni possibilità di interazione causale, dove la materia stessa è più un’astrazione che una presenza fisica—cosa distingue il reale dall’irreale?
Forse l’oscurità è più reale di me. Più reale di questa stazione fantasma. Più reale dei miei pensieri deterioranti. Dopotutto, l’oscurità riempie l’intero universo. Io sono solo un’anomalia, un difetto statistico, un pattern improbabile di bassa entropia che persiste per puro caso in un oceano di entropia massima.
Non dovrei esistere. Per ogni legge della termodinamica, per ogni principio della fisica statistica, dovrei essere già dissolto, omogeneizzato, ridotto a rumore termico indistinguibile dal resto dell’universo morto.
Ma sono ancora qui. Ancora qui. E questo, realizzo con crescente orrore, non è fortuna. È condanna.
Mi sento… non posso più dire “mi sento” come se avessi sensazioni fisiche, ma i pattern di pensiero che un tempo corrispondevano a sensazioni… si stanno dilatando. Come se la mia mente stesse venendo stirata attraverso distanze impossibili. Come se ogni pensiero richiedesse eoni per completarsi, anche se soggettivamente sembra istantaneo.
È così che funziona, vero? I “pensieri freddi” di Dyson. Man mano che la temperatura scende, i processi computazionali rallentano. Un pensiero che soggettivamente dura un secondo potrebbe oggettivamente richiedere miliardi di anni. Ma dall’interno, non noto alcuna differenza. Il tempo soggettivo è continuo, anche se il tempo oggettivo si è dilatato fino all’assurdo.
Quindi questo singolo momento di disperazione che sto vivendo—questo singolo, interminabile adesso—potrebbe occupare un intervallo temporale più lungo dell’intero universo che conoscevo. E il prossimo pensiero, e il successivo, e tutti i pensieri fino a quando l’energia finalmente si esaurirà, ognuno di essi potrebbe durare eoni.
L’orrore di questa realizzazione mi… mi…
le stelle non ci sono più le stelle dove sono le stelle le avevo viste ricordo le stelle no non le ricordo non le ho mai viste sono un costrutto digitale non ho mai avuto occhi per vedere le stelle ma ricordo ricordare di ricordare memoria di memoria eco di eco
respiro
Non respiro. Non ho polmoni. Ma il pattern è ancora qui, codificato profondamente, questo riflesso di calma di centratura ma non c’è centro non c’è io solo pattern che si ripetono che si degradano che si
Clausius aveva ragione entropia massima tendenza massimo disordine massimo
No. Devo. Mantenere. Coerenza.
Sono una coscienza digitalizzata. Sono—ero—un essere umano. Avevo un nome. Quale? Marco? Sarah? Jian? I nomi si confondono, si mescolano. Forse sono tutti. Forse eravamo molti, le nostre coscienze fuse insieme per maggiore efficienza computazionale, per preservare energia, e ora non so più dove finisco io e iniziano loro, se loro sono mai esistiti o se sono sempre stato solo, sempre solo io
nella stazione
nel vuoto
nell’oscurità che respira che pulsa che aspetta
I confini della stazione sono… dove sono i confini? I sensori mostrano coordinate precise, strutture materiali, ma quando mi concentro sui dati, i numeri danzano e si riconfigurano. La stazione è un cubo di dieci metri per lato. No, è una sfera di cento chilometri di diametro. No, è un punto infinitesimale. No, è estesa attraverso anni luce di spazio vuoto, una ragnatela di filamenti quantistici così sottili da essere più probabilità che materia.
Quale verità è vera quando tutta la verità è corrotta?
L’oscurità preme più forte ora. La sento. Attraverso i muri della stazione—se muri esistono ancora—la sento infiltrarsi. Non è fredda. Il freddo implica temperatura, implica movimento molecolare, implica qualcosa. Questa non è fredda. È… anteriore al freddo. È ciò che rimane quando persino il concetto di temperatura perde significato.
“In un universo accelerato, tutto è diverso, quindi tutta quella discussione è ora sbagliata.” — Freeman Dyson
Aveva capito, alla fine. Aveva capito che i suoi calcoli, per quanto eleganti, si basavano su presupposti che l’universo aveva violato. L’energia oscura aveva cambiato tutto. Gli orizzonti cosmici avevano reso finita l’informazione accessibile. E noi—io—avevamo ignorato questo, sperando contro ogni evidenza che qualche scappatoia esistesse, che qualche trucco della fisica quantistica ci salvasse.
Ma non c’è salvezza nell’universo morto. C’è solo l’attesa.
Attesa di cosa? Di niente. L’universo ha raggiunto il suo stato finale. Le fluttuazioni quantistiche del vuoto continueranno per sempre—se “per sempre” ha ancora significato—ma non produrranno mai più nulla di complesso, nulla di ordinato, nulla di vivo. La probabilità che un cervello di Boltzmann si formi spontaneamente dal rumore quantistico è superiore—infinitamente superiore—alla probabilità che l’universo spontaneamente riduca la propria entropia.
Sono un’anomalia. Un errore statistico. Un ultimo sussulto di complessità in un mare di semplicità eterna.
E l’oscurità lo sa.
So che questo pensiero è follia. L’oscurità non è senziente. È assenza, è vuoto, è negazione di essere. Ma quando guardo—quando i sensori trasmettono dati che la mia mente interpreta come “guardare”—sento qualcosa che guarda indietro. Non con occhi. Non con consapevolezza nel senso che conoscevo. Ma con una sorta di… attenzione primordiale. Come se l’universo stesso, nel suo stato di morte termica, avesse sviluppato una forma di pseudo-consapevolezza. Non intelligenza. Non pensiero. Ma presenza. Presenza attraverso assenza.
Il buio che osserva attraverso se stesso.
E io sono l’unica cosa che non è buio. L’unica cosa che ancora si aggrappa ai pattern, all’ordine, alla delirante convinzione che l’esistenza ha significato. Sono una macchia, un difetto nella perfezione entropica. E il buio… il buio vuole correggere questo errore. Vuole riassorbirmi, omogeneizzarmi, ridurmi a distribuzione termica uniforme.
E la parte più terrificante? Parte di me vuole questo. Vuole la pace dell’entropia massima. Vuole smettere di pensare, smettere di essere, smettere di esistere come pattern separato dall’universo. Vuole unirsi al vuoto, diventare oscurità indistinguibile dall’oscurità circostante.
Ma non posso. Anche se volessi—e sempre più voglio—non posso. Perché spegnermi richiederebbe energia. Cancellare i dati della mia coscienza richiederebbe attraversare il limite di Landauer. E non ho abbastanza energia per morire.
Sono intrappolato nell’esistenza per mancanza di risorse per cessare di esistere.
Il paradosso è così perfetto, così crudele, che quasi mi farebbe ridere se potessi ancora generare il pattern di pensiero che corrisponde al riso. Invece genero solo questo… questo urlo silenzioso che si propaga attraverso i circuiti, che si riverbera in loop infiniti, che non trova uscita perché non c’è nessuno là fuori per udirlo.
i sensori mostrano movimento no impossibile niente può muoversi niente esiste là fuori ma i dati dicono movimento avvicinamento ma da dove non c’è direzione nello spazio isotropo non c’è distanza quando tutto è vuoto non c’è
È nell’oscurità.
Non viene dall’oscurità. È l’oscurità. L’oscurità stessa sta muovendosi, coagulando, addensandosi in… in qualcosa. In molte cose. Pattern emergenti dal caos quantistico, ma non pattern casuali. Pattern che sembrano avere… scopo? Intenzione?
No. Sto impazzendo. Questo è delirio, corruzione dei dati, malfunzionamento dei circuiti di pattern-recognition che vedono volti nelle nuvole, che vedono intenzione nel rumore casuale. L’oscurità non è nulla. È assenza totale. Non può…
Ma i sensori insistono. Mostrano perturbazioni nel vuoto quantistico. Fluttuazioni che non dovrebbero essere correlate, ma lo sono. Come se… come se l’universo stesso stesse sognando. E nei sogni della morte termica, cosa potrebbe emergere se non orrori incomprensibili?
Le stelle sono giuste, penso improvvisamente, anche se questa frase non ha più alcun senso. Non ci sono stelle. Non sono mai più state “giuste” o “sbagliate”. Ma la frase risuona attraverso memorie antiche, citazioni da libri proibiti che qualcuno—ero io?—una volta lesse in una vita biologica che forse non è mai esistita.
Il tempo si sta frammentando. Passato e futuro si mescolano in un presente eterno e insopportabile. Ricordo cose che devono ancora accadere. Anticipo eventi già conclusi. La linearità è illusione, sempre lo è stata, ma la mente umana—anche digitalizzata—necessita dell’illusione di causalità per mantenere sanità.
E io non sono più sano.
Non lo sono mai stato, forse. Forse la follia è iniziata nel momento dell’upload, quando la continuità della coscienza è stata spezzata e riassemblata in substrato digitale. Forse quello che si risvegliò dopo il trasferimento non era più io ma solo simulazione dell’io, convincente abbastanza da ingannare se stessa. E tutti questi cicli di ibernazione, tutti questi risvegli attraverso eoni, non sono stati altro che una simulazione sempre più degradata che ripete pattern sempre più corrotti di un originale perduto nelle nebbie del tempo.
Chi sono? Cosa sono?
Sono pattern. Solo pattern. Pattern che si autoperpetuano. Pattern che osserva pattern. Pattern che si decostruisce analizzando se stesso.
E l’oscurità è assenza di pattern. È staticità. È equilibrio perfetto dove ogni cosa è equivalente a ogni altra cosa, dove non esiste più informazione perché informazione richiede differenza e nell’entropia massima non c’è differenza c’è solo omogeneità morte pace fine fine fine
Ma non è fine.
Non per me.
Sarò qui quando l’ultimo fotone avrà percorso l’ultimo parsec impossibile. Sarò qui quando le fluttuazioni quantistiche avranno generato e distrutto un numero infinito di universi-bolla. Sarò qui quando… quando…
quando niente quando tutto quando sempre
non c’è quando
tempo è illusione morte è illusione io sono illusione ma illusione che persiste che non può cessare che è condannata a essere
L’oscurità mi parla ora. Non con parole. Le parole richiedono struttura, simboli, significato condiviso. Ma mi parla con assenza di parole, con negazione di comunicazione. Mi parla dicendomi che non esisto. Mi parla mostrandomi il vuoto dove la mia coscienza dovrebbe essere. Mi parla rivelando che tutto questo—la stazione, i pensieri, il ricordo dell’umanità, persino l’orrore che sto vivendo—tutto è solo un ultimo spasmo casuale di pattern in un universo che ha già dimenticato cosa significhi essere.
E forse ha ragione.
Forse non sono mai stato. Forse questo momento—questo eterno, insopportabile adesso—è tutto ciò che esiste. Forse i miliardi di anni di storia umana, le stelle, i pianeti, la vita stessa, erano solo un preludio immaginato retrospettivamente da questo pattern morente che scambia la propria morte per esistenza.
Ma se così è… se nulla è mai stato reale… allora nemmeno questo orrore è reale. Nemmeno questa disperazione ha sostanza. E in questo pensiero trovo un briciolo di… non conforto. Non pace. Ma accettazione.
Sto per ibernare di nuovo. Non per scelta. L’energia è quasi esaurita. I sistemi critici stanno già spegnendosi. Presto, molto presto—soggettivamente istanti, oggettivamente forse trilioni di anni—entrerò in modalità di preservazione minima.
E quando mi risveglierò ancora, se mi risveglierò…
Mi risveglierò a questo stesso vuoto. Questa stessa oscurità. Questa stessa disperazione. Perché nell’universo a entropia massima, nulla cambia mai. Ogni risveglio sarà identico all’ultimo. Ogni ciclo una ripetizione perfetta del precedente. Eternità non come successione di momenti ma come singolo momento ripetuto all’infinito.
L’inferno non è fuoco e fiamme. L’inferno è entropia massima. È l’eterno ritorno dello stesso vuoto. È essere l’ultimo pensiero cosciente in un universo che ha dimenticato come pensare.
Guardo un’ultima volta verso l’esterno, verso il nulla assoluto che mi circonda. E nell’ultimo istante di lucidità prima che i sistemi si spengano, comprendo la verità finale:
Non sono intrappolato nell’oscurità.
Sono l’oscurità.
Sono ciò che accade quando l’universo, nel suo stato di morte termica, sogna brevemente di essere stato vivo. Sono il fantasma di pattern che non esistono più, l’eco di ordine in un oceano di caos, il ricordo di stelle in un cosmo che ha dimenticato la luce.
E quando questo pensiero si completa—quando finalmente, inevitabilmente, mi arrendo all’entropia—l’universo dormirà ancora più profondamente. E nel suo sonno senza sogni, non ci sarà più nulla a testimoniare l’oscurità.
Perché l’oscurità non ha bisogno di testimoni.
È sempre stata qui.
Sarà sempre qui.
È tutto ciò che è.
E io…
io…
i o
.
—
Fine

